VISITA

mercoledì 27 giugno 2007

FILIPPO SCOGNAMIGLIO, OPERAIO SPECIALIZZATO

ovvero: “Come fregare l’avvocato e vincere un miliardo”

L’avvocato arrivò di buon mattino nel suo ufficio, al settimo piano del grande edificio che da più di trent’anni ospitava i dirigenti della Grande Azienda, la più importante di tutte. Non ci veniva quasi mai: la gestione pratica dell’azienda era ordinariamente affidata al direttore generale e al consiglio di amministrazione, interamente formato da persone di fiducia, nominate personalmente dall’avvocato. Si svegliava presto, questo sì: ma non era mai stato il presidente che arriva in ditta alle otto del mattino. Aveva sempre deciso su tutto, ma in un certo senso da lontano: preferiva di gran lunga far conoscere il suo punto di vista attraverso un’intervista rilasciata ad un giornale inglese, sorseggiando un drink sulla baia di Portofino, che non attraverso noiose riunioni con dirigenti, quadri, maestranze operaie.

Con tutto questo, si prendeva sinceramente a cuore le sorti della Grande Azienda. Ed ogni tanto amava recarsi in ufficio senza preavviso, scambiare due chiacchiere informali col personale, informarsi delle condizioni dei suoi operai. Quella mattina, poi, bisognava stabilire a chi assegnare i premi per i migliori dieci dipendenti dell’anno: una tradizione risalente agli anni 30, che l’avvocato non aveva mai voluto abolire. Gli piaceva anzi togliersi il gusto, un po’ retrò se vogliamo, di essere lui a scegliere i dieci e a premiarli personalmente con una medaglia d’oro. L’Azienda avrebbe poi versato ai dieci fortunati un assegno extra pari a un mese di stipendio: ma di questo l’avvocato non amava occuparsi.

Era di buon umore, quando era uscito di casa e aveva preso posto sul sedile posteriore della sua Lancia. Ma quando il suo autista l’ebbe condotto in corso ***, alla sede dell’Azienda, il buon umore era già quasi scomparso. Consultando rapidamente la rassegna stampa, cui dava sempre un occhio un po’ troppo distratto, aveva notato il rilievo che i giornali del mattino davano all’intervista dell’ingegnere, in cui c’era un accenno, nemmeno troppo velato, a certe recenti iniziative poco fortunate, in cui si era avventurata la Grande Azienda: e aveva capito di essere lui, l’avvocato stesso, l’oggetto di certi sarcasmi. “E’ ivvitante” , borbottò scendendo dalla macchina, “quest’uomo è sempve più ivvitante. Bisognevebbe mandavli a scuola di buona cveanza, questi nuovi impvenditovi del giovno d’oggi”.

***

In ufficio, sbrigò abbastanza rapidamente la pratica dei premi: i candidati non erano molti e non occorse una grande fatica per scegliere i dieci più meritevoli. Stava appunto scorrendo il loro curriculum vitae (completo di dati su stato civile, eventuali figli, hobby personali e addirittura la fotografia di ognuno), quando si accorse che c’era qualcosa che non gli quadrava: “Vebaudengo”, chiamò attraverso l’interfono. Il ragioniere Rebaudengo si presentò immediatamente nell’ufficio dell’avvocato. “Vebaudengo, mi scusi, sa, ma c’è una cuviosità che pvopvio vovvei toglievmi. Lei conosce questo Filippo Scognamiglio?” e gli porse una cartelletta con il dossier.

“Scognamiglio, certo” rispose all’istante il Rebaudengo. “E’ il migliore di tutti. E’ entrato in fabbrica tre anni fa, operaio specializzato. Farà strada, glielo dico io. Uno di quelli che partono dalla catena di montaggio e arrivano alla presidenza. Scusi, sa, si fa per dire”. L’avvocato sorrise. “Sempre il primo ad arrivare, l’ultimo ad andarsene, sempre una parola buona per tutti, sempre pronto ad aiutare i colleghi più giovani, ad insegnare loro i piccoli trucchi del mestiere. Davvero, un uomo di altri tempi. E ha anche una bella famiglia, dicono”.

“Mi fa piaceve, cavo. Ma vede, quello che pvopvio non mi tovna, è il suo indivizzo. Questo Scognamiglio abita in piazza ***! Si vende conto, vagionieve?”.

“Sì, in effetti…” rispose il ragioniere, senza finire la frase. L’ingenuo Rebaudengo non aveva capito dove l’avvocato volesse andare a parare e non voleva correre il rischio di contraddirlo.

“Mi domando come possa fave un opevaio, specializzato finché lei vuole, ma puv sempve un opevaio, ad abitave in una zona così signovile! Ma è sua o è in affitto?”.

“Credo in affitto, avvocato”, tentò il Rebaudengo, che cominciava a temere una qualche bizzarra iniziativa dell’avvocato. Se ne pentì subito.

“Peggio ancova! Pevchè vede, fosse sua potvemmo pensave al lascito di qualche pavente vicco. O a una vincita alla lottevia o all’enalotto, quello là, come si chiama, il giuoco coi numevi da indovinave. Ma un opevaio che paga un affitto in piazza ***, e non impovta se è un quadvilocale o un avmadio, è uno che vive al di sopva delle sue possibilità teoviche”.

“Sì, certo, avvocato”, rantolò il Rebaudengo, già sudato.

“Io non voglio negave a Scovagiglio…”.

“…Scognamiglio, avvocato…”

“Non voglio negave a Scognamiglio il divitto di abitave in piazza ***! Anzi sono contento che la classe opevaia possa vedeve soddisfatte le pvopvie legittime aspivazioni al benesseve. Soltanto” e qui l’avvocato sorrise, come sorride chi sta per dare un ordine inatteso e sa per certo che l’ordine sarà eseguito – “Soltanto vovvei sapeve come fa”.

“Cosa devo fare, avvocato?” gemette il ragioniere, che già temeva di doversi appollaiare sulla grondaia di piazza *** a spiare la vita segreta dell’operaio specializzato Filippo Scognamiglio.

“Lo mandi a chiamave. Lo voglio qui entvo un’ova. Gli si faccia capive che è una convocazione del tutto infovmale ed amichevole e che savò io stesso a davgli tutte le spiegazioni. Ah, Vebaudengo…”

Il ragioniere stava già uscendo dall’ufficio, per precipitarsi al telefono: “Dica, avvocato?”

“Se non facciamo sapeve a tutta l’Italia di questa cosa, ne savei felice, cavo. Che dice, ce la facciamo?”. Ora il sorriso era garbatamente sarcastico.

“Non dubiti, non dubiti avvocato”, sorrise a sua volta il Rebaudengo, che scivolò dietro la porta grande, per fare la sua telefonata.

***

Scognamiglio fu condotto nell’ufficio dell’avvocato, cinquantasette minuti dopo la telefonata del Rebaudengo. Gli avevano detto che si trattava del famoso premio e che l’avvocato voleva fare due chiacchiere con i vincitori, prima del gran giorno. Scognamiglio non si era scomposto: tutti conoscevano queste iniziative un po’ ecumeniche dell’avvocato. E tutti gli volevano bene. Pur essendo un uomo famoso in tutto il mondo, sapeva trattare con i suoi dipendenti ed aveva un carisma che li rendeva, in fondo, orgogliosi di appartenere alla Grande Azienda. E poi Scognamiglio era un tipo freddo, che non si lasciava facilmente spaventare. Certo, quando arrivò al settimo piano del grande edificio era un po’ nervoso. E quando si presentò all’avvocato si mise sull’attenti, ed anzi diede senza pensarci un leggero batter di tacchi, di cui si vergognò subito. L’avvocato se ne accorse e cercò di metterlo a suo agio, facendolo sedere su una delle comode poltrone dell’ufficio, destinate di solito a gente ben più importante (uomini politici, imprenditori, vescovi, generali…), e cominciando una piacevole chiacchierata. Parlarono di tante cose, dalle condizioni di lavoro in catena di montaggio, al gioco del calcio, alla politica italiana. Scognamiglio era un tipo con una buona cultura di base: costretto ad andare in fabbrica molto giovane, per necessità famigliari, non aveva rinunciato alle buone letture e sembrava avere anche un cervello brillante. In effetti Rebaudengo non si era sbagliato: uno così, con un po’ di fortuna, avrebbe fatto strada.

Finalmente l’avvocato, tossicchiando, decise di abbordare l’argomento che gli interessava: “Senta, mio cavo Scognamiglio, vovvei favle una domanda un po’ delicata. E’ una cosa pevsonale e Lei non è affatto obbligato a vispondevmi, sa. Ma vede, ho saputo questa mattina, mentve analizzavo il suo dossier, che Lei abita in piazza ***. E’ vevo?”, domandò, con un luccichio di curiosità quasi infantile, nei suoi occhi penetranti, eppure allegri.

“Sì, avvocato. Piazza *** al numero dodici. Un trilocale al sesto piano. Ci abito con mia moglie e i miei due bambini. E’ molto caro, è vero, ma la vista sulla collina è qualcosa di impagabile, Lei mi capisce.”.

“Cevto, cavo, cevto che La capisco. Ma… pevché non l’ha compvata?”.

Lo sguardo dello Scognamiglio si fece ridente: “Aspettiamo il terzo figlio, avvocato. E presto avremo bisogno di più spazio!”.

L’avvocato era sempre più incuriosito: “Complimenti, cavo, e tanti cavi auguvi alla signova… Solo che… mi pevdoni…, è vevo… ma… ma come fa con lo stipendio che Le passiamo?”.

Lo Scognamiglio restò un momento incerto sulla risposta da dare. Poi, vedendo che lo sguardo dell’avvocato continuava a mantenersi sereno ed amichevole, si sentì sollevato e non ebbe problemi a dargli la risposta. Una risposta che lasciò di sale l’avvocato: “Mi piace scommettere”.

Capì di avere colpito l’interlocutore. E allora continuò, rincarando la dose: “E vinco sempre!”.

L’avvocato restò diversi secondi senza parlare. Poi abbozzò: “Sempve?”.

“Sempre!”.

Nella sua giovinezza aveva lungamente frequentato il tavolo verde a Montecarlo: prima, naturalmente, di assumersi in prima persona la carica di presidente della Grande Azienda. Poi aveva dovuto rinunciare, seppure a malincuore, a quell’“onesto e piacevole passatempo” come argutamente lo definiva lui: il consiglio di fabbrica non avrebbe mai accettato di trattare il rinnovo del contratto di lavoro con un presidente dedito alla roulette e agli altri giochi francesi di gloriosa memoria. In ogni caso, l’avvocato si ricordava della regola eterna: il giocatore è sempre in perdita; se è miliardario copre le perdite; se non lo è, va al fosso; se è donna, può tentare di compensare altrimenti. L’affare Scognamiglio diventava sempre più interessante.

L’avvocato si riscosse dai suoi ricordi giovanili e sbottò: “Non è possibile, mio cavo. Non si può vinceve sempve. Lei non me la vacconta giusta. Lei vuol favmi cvedere che scommette vegolavmente e vince sempve? E su cosa scommette, di gvazia?”.

“Su qualsiasi cosa, avvocato” rispose sicuro lo Scognamiglio. “Ha presente i bookmakers inglesi? Quelli le “bancano” anche la neve a ferragosto! E se io scommetto sulla neve a ferragosto, non so perché, ma è così, a ferragosto nevica. Lo so che è pazzesco, io stesso non ci volevo credere, all’inizio. Ma vinco sempre. Mi scusi se mi permetto” (qui lo Scognamiglio ebbe un attimo di esitazione – non sapeva se stava azzardando un passo proibito, ma volle osare) “vincerei anche con Lei, se ci capitasse di scommettere su qualsiasi cosa”.

L’avvocato non seppe resistere, fu più forte di lui. Voleva “vedere” le carte dello Scognamiglio: “Ma scusi, cavo, lei pvetende di pvevedeve il futuvo?”.

“In un certo senso è proprio così”, ribatté ridendo lo Scognamiglio. E ciò che più sconcertava l’avvocato era il tono con cui l’operaio parlava, che sembrava rendere tutto perfettamente logico e credibile. “Ma se non ci crede, avvocato…”.

“Se non ci cvedo, cosa?”.

Allo Scognamiglio parve di lanciarsi da uno scoglio a dieci chilometri dal suolo. Spiccò il volo: “Perché non facciamo una prova? Una scommessa? Così, tanto per convincerla che dico sul serio”.

L’avvocato era sconcertato dall’arroganza delle parole dello Scognamiglio e dal candore con cui le pronunciava. E sapeva che a questo punto non si sarebbe mai tirato indietro. Cercò di convincersi di essere sincero, quando disse: “Cavo il mio Scognamiglio. Vede, lei è giovane, e la fovtuna è dei giovani audaci come lei. Io le auguvo di vevo cuove di fave tanta stvada nella vita. Ma stia attento che l’eccesso di confidenza a volte giuoca bvutti schevzi. Su cosa vovvebbe scommetteve, per esempio?”.

Scognamiglio ci pensò un attimo poi, abbassando lo sguardo, come se in fondo si vergognasse, disse: “Per convincerla che non c’è trucco, le proporrei di fare una scommessa che riguarda Lei personalmente, avvocato…”.

L’avvocato ora non sorrideva più: “Savebbe a dive, Scognamiglio? Dica, dica, su cosa dobvemmo scommetteve, che viguavda me pevsonalmente?”.

“Ecco, io scommetto un miliardo che fra un mese le saranno venute…”

L’avvocato cominciò a spazientirsi: “Allova, Scognamiglio, mi vuol dive cosa mi vevvà fva un mese? Le mestvuazioni?”.

“No, avvocato. Le emorroidi. Le verranno le emorroidi”.

Trenta buoni secondi di silenzio, poi l’avvocato proruppe in una risata, che pareva sincera. Poi, di colpo, fu di nuovo serio: “Ma scusi, sa. Il miliavdo, Lei, dove lo tvova?”. E aveva alzato la voce su quel Lei, che cominciava a tradire il latente, ma tradizionale disprezzo del possidente di antico lignaggio verso il proletario irrispettoso e stvonzo.

“Non ho bisogno di trovarlo, avvocato. C’è già. Non posso dirle esattamente dove, ma lei mi capisce, con questa attività ho fatto a tempo a mettere via una discreta somma…”.

Al sentire l’operaio specializzato Filippo Scognamiglio chiamare un miliardo “una discreta somma”, l’avvocato sbottò: “Allova senta, Scognamiglio, io accetto la scommessa. Fva ventinove giovni io vado a Ginebva a fave il mio solito check-up di pvimaveva dal pvoffessov Fuvstenbevg. Fva tventa giovni ci ritvoviamo qui e vediamo chi ha vinto. D’accovdo, cavo il mio vagazzo?”.

Lo Scognamiglio fu sinceramente spaventato dal tono risentito dell’avvocato: “Io sono d’accordo, avvocato. Ma se Lei vuole rinunciare, guardi, io mi tiro subito indietro. Abbiamo detto così, tanto per dire…”.

“Eh no, eh no, cavo” rimbeccò l’avvocato, con una voce che, lui stesso se ne accorse e se ne dispiacque, non era più la sua: era piuttosto la voce da zitella inacidita dell’onnipotente che, chissà perché, ha paura di aver fatto un passo falso. “La scommessa è fatta. Ci vivediamo qui fva un mese esatto. La favò chiamave come oggi e vegoleremo la nostva vevtenza. Inutile dive che mi fido di lei e che pev qvuesto non le chiedo ulteviovi infovmazioni sulla banca svizzeva. Del vesto, potvei pvocuvavmele altvimenti, se volessi. Ed è inutile anche aggiungeve che esigo la sua assoluta discvezione su questa faccenda. La conoscevemo solo io e lei, questa stovia. Non viguavda nessun altvo, fosse puve il Padvetevno. Mi sono spiegato, mio cavo?”.

“La ringrazio, avvocato”, rispose lo Scognamiglio, che cominciava ad aver voglia di andarsene e temeva, lui pure, di avere spinto il gioco un po’ troppo in là.

L’avvocato lo accompagnò alla porta, ma questa volta si salutarono freddamente. E per ventinove giorni, tutti quelli che incrociavano l’avvocato notavano che era insolitamente taciturno. In ufficio non tornò, né si vide nei pochi ritrovi più o meno mondani che abitualmente frequentava. Circolava la voce che si fosse ritirato nella tenuta di *** e che avesse fatto sapere che per qualche giorno non voleva essere disturbato.

***

Aveva trascorso un paio di giorni nella clinica Rote Kreutz di Ginevra ed altri due nel suo appartamento al Grand Hotel, dove solitamente riceveva il professor Joachim von Furstenberg, medico tedesco di fama mondiale, quando questi gli comunicava l’esito degli esami. Li faceva ogni sei mesi, a primavera e in autunno e, nonostante l’età e qualche innocente vizio cui non intendeva rinunciare, godeva di ottima salute.

Stavolta l’avvocato aveva chiesto al dottor Furstenberg di incontrarlo non all’albergo, ma nell’ufficio del dottore in clinica, e Furstenberg, sebbene perplesso per quella richiesta così insolita, accettò senz’altro. Si incontrarono alle sette di sera, in modo da potersi intrattenere in tutta tranquillità, senza essere disturbati. Il dottore presentò all’avvocato l’esito degli esami “kome al solito superati prillantemente”, scherzò. Si conoscevano da tanti anni e, per quanto possibile a quei livelli sociali, si può ben dire che erano ottimi amici.

“Sono molto contento, dottove”, sorrise l’avvocato. “Vedo che tutti i valovi del sangue sono a posto, me ne compiaccio, cavo. Adesso, però…” e tacque, come imbarazzato.

“Mi tika, affocato. Ha pisogno di qwalcosa?”, chiese premuroso il dottor Furstenberg. Alto quasi due metri, a vederlo da vicino faceva perfino paura.

“Le vovvei chiedeve di vevificave se pev caso non mi siano venute…” e qui ebbe lo stesso imbarazzo che aveva mostrato settimane prima lo Scognamiglio, nel pronunciare la repellente parola. “… se non mi siano venute le emovvoidi, ecco”.

Il dottore lo guardò perplesso, ma il suo sguardo divenne subito serio. Aveva capito immediatamente che l’avvocato non stava scherzando: non era l’amico che parlava, era il paziente che rivolge una domanda un po’ delicata al suo medico. Il dottor Furstenberg gli chiese se aveva avvertito dei dolori, dei disturbi. L’avvocato diede una risposta evasiva: non disse ovviamente una parola sulla scommessa nella quale era stato trascinato, ma nemmeno voleva ammettere che, sì, lui dei dolori, dei disturbi li aveva avvertiti, negli ultimi giorni, maledizione, ma che non sapeva dire se fossero reali o fossero il frutto dell’immaginazione. Non poteva essere che quel maledettissimo Scognamiglio avesse detto la verità? Che vinceva sempre? Indovinava il futuro, il pacchiano, l’operaiaccio scelto, il cipputi modello? O era un mago? Uno stregone? O era, Dio non volesse, un menagramo? L’avvocato già si vedeva costretto a passare il resto della sua vita a sedersi su cuscini gonfiabili, per colpa di quella brutta carogna dell’operaio, uno che suo nonno, ai suoi tempi, avrebbe fatto uccidere dalla milizia o (“non avviviamo a tanto…” sospirava fra sé, quando ci pensava) avrebbe fatto mandare al confino perpetuo a Ventotene, con l’accusa di tramare contro qualcosa o qualcuno… Insomma, da qualche giorno gli sembrava, no, no, da qualche giorno gli faceva male sul serio, un male boia ed era spaventato a morte, ma non voleva confessarlo al dottor Furstenberg.

Questi, dal canto suo, conoscendo la personalità a volte un po’ bizzarra dell’avvocato, né volendo comunque irritarlo (era pur sempre il suo cliente italiano più importante), vedendo che il paziente si manteneva sulle sue, preferì non fare troppe domande ed acconsentì con un sospiro di disapprovazione alla richiesta di un controllo immediato e diretto dell’effettiva presenza – oppure no – del temuto malanno.

(…)

Terminata la breve operazione, mentre l’avvocato riprendeva la sua postura abituale, il dottor Furstenberg, con quel suo sorriso “a metà tva il dottov Schweizev e il dottov Mengele” (così a Sankt Moritz, durante un breve rendez-vous con Otto von Hessen, un paio d’anni prima), si rivolse all’illustre paziente, per confermargli ciò che il paziente aveva già capito: “Karissimo affocato, lei può stare trankwillo. Non c’è traccia alkuna di emorroide presente, né passata, né, le aukuro, futura. Se lei ha avuto dei pikkoli tisturbi, pwò essere stata kolpa di qwalke spezia un po’ troppo pikante, di un abuso inzomma, di cibi troppo rikki. Ma si tratta di cose del tutto passecciere, ja, ke skompaiono in poki ciorni. Le succerisco, se questi tisturbi tofessero ankora ferificarsi…”.

Il dottore gli diede i consueti consigli per una corretta alimentazione, sana ed equilibrata, che non importa riferire, anche perché l’avvocato naturalmente nemmeno li ascoltava. In effetti, quello strano bruciore che gli sembrava di provare fino a pochi minuti prima era ora del tutto scomparso e, non c’erano dubbi, in effetti non l’aveva mai avuto davvero. Erano tutte conseguenze dell’immaginazione e (ora l’avvocato poteva ammetterlo senza più ritegno) della paura. Ma ora Scognamiglio era sistemato. All’inizio di questa storia l’avvocato aveva addirittura pensato, nel caso avesse vinto quella strana scommessa, di rinunciare a riscuotere il miliardo: lui, spillare soldi ad un suo operaio? mai! Ora invece questi “scvupoli da dama di San Vincenzo” gli erano del tutto passati ed anzi pregustava il momento in cui avrebbe dato all’incauto giocatore la lezione che meritava. I suoi ricordi di gioventù, del tavolo verde a Montecarlo, si ridestarono all’improvviso, l’ebbrezza della vincita, anzi proprio della Vittovia, lo aveva preso nel suo turbinoso abbraccio, tanto da indurlo a mollare, nell’entusiasmo, una irrituale, fragorosa e sonora pacca sulla schiena del malcapitato medico tedesco di fama mondiale…

“Mio cavo Fuvstenbevg [PACCCC!!!], lei non sa quanto le sono gvato pev queste notizie che lei mi dà. Pvopvio non posso spiegavle meglio, ova, ma chissà, un giovno magavi le vaccontevò come evo avvivato a questa stvana fissazione delle emovvoidi. Una fissazione cvetina, me ne vendo conto, ma se lei sapesse… Ma adesso non pensiamoci più e andiamo a cena, mio cavo. Cvedo che il mio segvetavio abbia pvenotato al Vestauvant La Piège, ma devo davgli un colpo di telefono pev la confevma. Pevmette che mi sevva del suo telefono? Gvazie infinite. Intanto, cavo, le dispiacevebbe favmi un piccolissimo favove?”.

“Zerto, affokato, mi tika, qwello ke tesitera, se posso…”, gemette il dottore, che temeva chissà quale altra bizzarra pretesa e si domandava se non fosse il caso di consigliare francamente all’avvocato un mesetto di riposo in una casa di cura nell’Engadina.

“Glielo dico subito. Una cosetta da niente. Mi vilasci, pev covtesia un cevtificato con la sua fivma, e tutti i timbvi della clinica natuvalmente, un cevtificato attestante che io non sono afflitto dalle emovvoidi”. Il dottore lo guardò, come se volesse essere sicuro di aver capito bene. Ma l’avvocato non lo lasciò parlare: “Lo so, cavo, che le sembva stvano, ma le assicuvo che ho i miei motivi pev favle questa vichiesta. Come Le ho detto, può davsi che poi io le possa spiegave tutto… anzi, guavdi, le pvometto che le spieghevò tutto quando ci vedvemo la pvossima volta. D’accovdo?”.

“Ja, affokato, t’accorto. Non ci sono partikolari proplemi, tanto più ke lei non mi kiete niente di illekale. Il zertifikato zarà pienamente feritiero: in effetti lei le emorroidi non le ha” e mentre lo diceva si convinceva che era proprio così, e pareva rassicurato. E cominciò a frugare nel grande armadio, per trovare un foglio di carta intestata ed una busta.

“Gvazie, cavo. So che posso sempve fidavmi di lei. Dunque, pvonto Santalmassi, è lei? Allova ha pvenotato? Pev le otto alla Piège? Pevfettamente. Mi manda una macchina alle otto meno un quarto? Sì, qui alla clinica. La vingvazio, Santalmassi. Si pvenda puve la sevata libeva. A domattina. Sì, alle sei la chiamo, Santalmassi. Anche sei meno un quavto. Buona sevata, Santalmassi” e riattaccò con un sorriso finalmente disteso.

***

Era arrivato ancor prima del solito. Il suo eccellente umore non si era guastato nemmeno in macchina, durante la consueta, rapida scorsa della rassegna stampa. L’ingegnere si era spinto oltre l’insulto, questa volta, dichiarando che la Grande Azienda era ormai diventata un malato cronico sovvenzionato dallo Stato, che anziché sostenere le giovani imprese preferiva mantenere in vita le grandi industrie vecchie di cent’anni senza un progetto per l’avvenire, eccetera. E aggiungeva una battuta volgare, sui “dinosauri della finanza, che prima o poi lo prenderanno in quel posto”, addirittura! Qualcosa di inaudito, nel gergo dell’alta società imprenditoriale, tanto che lo stesso giornalista aveva messo in evidenza il tono decisamente sopra le righe dell’ingegnere. Ma l’avvocato non si scompose: “Gvida, gvida, mio cavo. E’ da almeno tvent’anni, se non da cinquanta, che li sentiamo questi discovsi, di gente che vuol vappvesentave il sole dell’avvenive e poi nel givo di cinque-sei anni se ne scappa in Libano, lasciando dietvo di sé debiti, pignovamenti, amanti insoddisfatte e pellicce da pagave. Gvida puve, mio cavo, vedvemo chi se lo pvendevà in quel posto, alla fine, eh, eh…”. Sogghignava soddisfatto, l’avvocato, pensando con gioia a “quel posto”, al suo naturalmente. Un posto che, l’aveva detto Furstenberg, era liscio e scorrevole come la Milano-Torino negli anni Cinquanta.

Non ebbe nemmeno bisogno di ricordare a Rebaudengo che era il giorno X. Fu il ragioniere stesso che gli comunicò, al suo arrivo, che il signor Luigi Scognamiglio sarebbe stato introdotto nell’ufficio dell’avvocato alle dieci precise. Mancavano quasi due ore, che l’avvocato trascorse rileggendo divertito il saggio Le leggi fondamentali della stupidità umana, un piccolo classico del suo economista preferito, Carlo Maria Cipolla. Rebaudengo, nell’ufficio accanto, ebbe ad un certo punto l’impressione di sentirgli fischiettare l’ouverture della Gazza Ladra.

Ed arrivarono infine le dieci e si presentò, lo Scognamiglio. Questa volta, dato che sapeva di essere atteso dall’avvocato, aveva chiesto un giorno di permesso (prontamente accordato) e aveva tirato fuori dall’armadio un completo di Caraceni, che ovviamente nessuno in fabbrica gli aveva mai visto addosso. Arrivò puntualissimo e salutò l’avvocato con viva cordialità, quasi con gioia. L’avvocato non si accorse di quello strano bagliore che emanavano i suoi occhi. Un bagliore che non c’era, il giorno del precedente incontro. Aveva con sé una valigetta di coccodrillo, che l’avvocato immaginò piena di soldi, piena di un miliardo.

L’avvocato lo fece accomodare e dopo poche frasi di circostanza su mogli, clima e gioco del calcio, entrò subito nel vivo della materia. “Mio cavo Scognamiglio, veniamo a noi. Oggi scade il tevmine della scommessa ed è il giovno in cui, con vispetto pavlando, il mio didietvo dobvebbe esseve la véclame della Pvepavazione Acca”. Una breve pausa, quasi per assaporare la gioia di ciò che stava per dire, e poi: “Lei ha pevso la scommessa, Scognamiglio. Ecco qui un cevtificato, fivmato dal pvofessov Gioacchino Fuvstnbevg, della Clinica Cvoce Vossa di Ginebva, che attesta che il mio didietvo non pvesenta difetto alcuno ed è, come si dice, batteviologicamente puvo”.

Gli porse il documento, che lo Scognamiglio lesse con attenzione, aiutandosi con un paio di occhiali di tartaruga, costosissimi, acquistati da un artigiano di Belluno. “Scognamiglio cavo”, continuò l’avvocato mentre quello soppesava il documento parola per parola, “mi spiace pev lei, ma spevo che questo le sevva di lezione. L’impetuosità giovanile può esseve una dote, ma può anche povtave a conseguenze molto gvavi, molto molto gvavi. E’ inutile pvecisave che vevsevò in beneficenza tutto il vicavato della scommessa, ma cvedo sia giusto che lei paghi. Del vesto, lei stesso mi ha detto che non le mancano i mezzi, quindi spevo voglia vegolave quanto pvima. Può pvendeve accovdi col vagionieve Vebaudengo, che le dirà… cosa c’è?”.

L’avvocato fu sorpreso nel vedere che lo Scognamiglio scuoteva la testa, sorridendo. “Mi scusi, avvocato, io mi fido di lei, so che lei è una persona al di sopra di ogni bassezza” (qui l’avvocato non capì se gli aveva fatto un complimento oppure no), “ma qui, mi perdoni, si parla di una scommessa da un miliardo e io sono un professionista serio. Se ho perso, sono disposto a pagare il miliardo fino all’ultima lira. Ma mi permetta di dirle che questo certificato non prova niente e non mi basta”.

L’avvocato non capì e alzò il tono della voce: “Come savebbe a dive, Scognamiglio, che non le basta? Vuol fovse cevcave una scappatoia? Guavdi, le consiglio di evitave questi giochetti, con me: potvebbe pentivsene, sa?”.

Scognamiglio fu lesto a rispondergli. Non voleva che l’equivoco sfociasse in una lite: “Aspetti, avvocato, non si arrabbi, le spiego subito. Come lei ha detto un mese fa, questa storia deve restare una faccenda privata fra me e lei. Ed io sono perfettamente d’accordo. Ciò però significa che sono io a dovere effettuare la verifica. Si abbassi i pantaloni, per cortesia”.

Aveva parlato con lentezza e con freddezza. L’avvocato ne era rimasto stupefatto. Era proprio un professionista, bisognava riconoscerlo. E la sua pretesa era del tutto ragionevole: in fondo si trattava di un miliardo; in fondo era stato lui, l’avvocato, ad insistere perché la scommessa fosse giocata fino in fondo; ed era lui che, ora, pretendeva di risolvere la cosa sventolando un certificato che, per quanto Scognamiglio ne sapeva, avrebbe anche potuto essere falso. Maledicendo il giorno in cui suo nonno aveva deciso di istituire la premiazione dei “dieci impiegati dell’anno”, l’avvocato sospirò: “Guavdi, Scognamiglio. Vediamo di finivla con questa stovia. Io mi lascio manipolave da lei, pevché… non so pevché, sono affavi miei. Ma vediamo di fave in fvetta e, sopvattutto vada a chiudeve quella maledetta povta. Ci manca che entvi anche Vebaudengo, adesso, così facciamo un bel tvio di pedevasti, ah che schifo”.

Lo Scognamiglio non sorrise, si alzò, chiuse la porta a chiave, prese la sua valigetta e ne estrasse un guanto che provvide ad infilare, con gesto lento ed elegante, nella mano destra. Con voce fredda, si sarebbe detto professionale, ordinò all’avvocato di slacciarsi i pantaloni, con tutto quello che segue e che ognuno immagina. Mentre si sottoponeva all’umiliazione suprema, già condannata dall’Antico Testamento in pagine memorabili, l’avvocato faceva voto alla Vergine del Tibidabo di non scommettere mai più su nulla, nemmeno alla tombola di beneficenza del Rotary Club.

(…)

Mentre lo Scognamiglio si levava il guanto, l’avvocato si riallacciò i pantaloni e gli sibilò: “Allova? E’ finita questa buffonata?”.

“Sì, avvocato” sorrise l’operaio specializzato, senza scomporsi. “Riconosco di avere perduto la scommessa e sono pronto a pagare. Naturalmente mi ci vorrà qualche giorno per raccogliere la somma, dato che il denaro, come già le ho fatto capire, non si trova qui, ma altrove. Prenderò qualche giorno di ferie, mi ci reco personalmente, incasso e la pago. Ci vorrà al massimo una settimana, ma stia tranquillo, non scappo”.

“Tvanquillissimo, Scognamiglio, lo so che non mi scappa”, ringhiò l’avvocato, che credeva di avere il sedere in fiamme, come Pompei ai tempi dell’eruzione del Vesuvio.

Lo Scognamiglio riaprì la valigetta, infilo il guanto usato in un’ampia tasca laterale, e tirò fuori un foglio di carta di Pineider color vaniglia, filigranata, e una Montblanc d’oro, cui sfilò con cura il cappuccio: “Ecco, avvocato, le firmo un’impegnativa”. E scrisse:

Io sottoscritto Luigi Scognamiglio (eccetera)

PREMESSO

di essermi impegnato al versamento di Lire 1.000.000.000 (un miliardo) alla persona dell’avvocato *** nel caso in cui non fosse stato colpito dalla affezione anale denominata “emorroidi” entro la data odierna,

CONSTATATO

attraverso verifica autoptica sulla persona dell’avvocato, che l’eventualità prevista non si è verificata,

DICHIARO

di avere perduto la scommessa e mi impegno a versare all’avvocato la cifra pattuita in contanti entro una settimana a decorrere dalla data odierna.

(data e firma)

Il tratto era leggero, la firma elegante, un che di nobile. L’avvocato ne fu sinceramente affascinato. Ma questo era davvero un operaio specializzato? O uno spirito? O forse era tutto un sogno? Ma gli sarebbe davvero dispiaciuto svegliarsi, nonostante quel fastidio intollerabile alle parti basse. E pensava: “Pvopvio un pevsonaggio stvaovdinavio, questo Scognamiglio. Un giovno di questi devo viflettevci: pevché uno così io lo vedvei divettamente nel consiglio di amministvazione. Ma è anche vevo che uno così è capace di vivoltavtelo contvo, il consiglio di amministvazione, e dall’oggi al domani ti ritvovi a fave lo spazzino”.

“Ecco, avvocato. Vuole controfirmare per accettazione il documento?”. L’avvocato non ebbe nulla in contrario. Tirò fuori la sua Montblanc, senza trattenere un colpetto di tosse un po’ stizzito. Si tenne l’originale e ne fece una copia per lo Scognamiglio, con la piccola fotocopiatrice Xerox, che teneva in un angolo lontano dell’ufficio, per i casi di emergenza.

***

“Bene, cavo Scognamiglio”, disse sollevato, mentre lo accompagnava alla porta, evitando però di tendergli la mano. “Sono contento che lei l’abbia pvesa con questo spivito. Lei è un vagazzo capace e sono cevto che favà cavvieva. Anzi, magavi ci vivedvemo pvesto, potvei aveve qualche pvoposta pev lei, mi lasci pensave. Comunque sia andata, lei ha talento, cavo. Ma lasci pevdeve le scommesse. Pensi a sua moglie, ai bambini. Abvà capito che con le scommesse oggi vinci, ma domani pevdi tve volte tanto: non è possibile vincere sempve. Sono cevto che le vesta ancova una bella somma, in quella cevta banca svizzeva. La tenga da conto, non la butti via”.

Si sentiva il buon padre dei suoi dipendenti e fu stupito nel vedere lo Scognamiglio scuotere la testa, sempre sorridendo: “Mio caro avvocato”, disse l’operaio specializzato, scimmiottando involontariamente il suo interlocutore, “non ci penso nemmeno. Il lavoro in fabbrica è solo una copertura, sono le scommesse che mi danno da vivere ed io non ho la minima intenzione di rinunciarvi”.

“Ma come, Scognamiglio? Cosa dice adesso? E questo miliavdo che ha pevso, dove lo mettiamo?”.

“Le dirò, avvocato. E’ vero, ho appena perso un miliardo con lei, ma ho vinto due miliardi con l’ingegnere. Ieri ho fatto una scommessa con lui: ho scommesso due miliardi che questa mattina sarei venuto qui da lei, avvocato, e glielo avrei messo nel culo. L’ingegnere sosteneva che era impossibile. Ed ora, se permette, vado a riscuotere. Arrivederci, avvocato. E’ stato un piacere conoscerla personalmente”.

E uscì col passo sicuro del fuoriclasse, richiudendo la porta dietro di sé.


Nota a margine: questo racconto è opera del mio carissimo amico. Ringrazio " un italiano a Parigi" per avermi dato l' autorizzazione a pubblicarlo nel mio sito.


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